mercoledì 28 agosto 2013

LA COMUNE HIPPY DI OVADA - GALLINO, 2012



LA COMUNE HIPPY DI OVADA
a cura di Ignazio Maria Gallino
Gallino, 2012

“Un giorno d’inverno del 1970, raccolte alcune coperte e qualche utensile agricolo, decidemmo di andare ad Ovada, un paesino posto sulle colline del Monferrato, per costruire una comune agricola. Questa nostra decisione non fu il risultato di una paranoia del momento e nemmeno un improvviso desiderio di avventura. Molti di noi avevano vissuto le esperienze comunitarie di Mondo Beat e le lotte degli ultimi anni. Alcuni avevano anche sperimentato la vita nelle comuni cittadine, ma si erano presto resi conto che non era sufficiente, per creare rapporti interpersonali diversi, dividere assieme una stanza e pochi oggetti d’uso. Più o meno tutti affrontavano la prospettiva di una vita in comune in un modo nuovo. La cultura tradizionale con la sua ipocrisia, vacuità e mancanza di sbocco, ci stava uccidendo. Eravamo fermamente convinti che la comune fosse l’unico e significativo modo di vita. Dopo avere ottenuto il permesso di accamparci in quei terreni (quasi subito revocato dal padrone), ci demmo da fare per rendere il posto abitabile, rimuovendo le travi e le tegole che stavano cadendo a pezzi, riempiendo le stanze e i fienili di oggetti, di scritte, di disegni, di vibrazioni e di felicità. I contadini del luogo ci accolsero come vecchi amici: mangiavamo spesso con loro, raccontandoci le nostre reciproche esperienze. Inoltre loro ci insegnavano i segreti della terra, felici di trovare in noi degli attenti discepoli. Dopo qualche mese le capre e le galline cominciarono a crescere di numero e con loro anche i membri della comune. E cominciammo a ricevere moltissime visite: molti venivano semplicemente per curiosare, ma altri volevano vivere la nostra stessa esperienza. Più aumentavamo di numero, più difficile diventava la nostra convivenza. Le cose da fare erano molte: curare gli animali, provvedere alla semina e ai raccolti, irrigare i campi. E poi c’erano i lavori domestici. Ma non ci scoraggiavamo e riuscivamo a trasformare il lavoro in gioco: così, ad esempio, lavare i piatti al fiume diventava un rito quasi sacro, smuovere le zolle del terreno una festa. Molto spesso di notte ci mettevamo tutti attorno a un circolo con tam-tam, armoniche, chitarre e flauti, alla ricerca di nuovi mezzi di comunicazione”.