venerdì 31 maggio 2013

JAMES TURRELL - ALMINE RECH GALLERY, PARIS



JAMES TURRELL
Almine Rech Gallery
64 rue De Turenne - Paris
1/6/2013 - 26/7/2013

“I use light as a material to work the medium of perception, basically the work really has no object because perception is the object. And there is no image because I am not interested in associative thought.”
— James Turrell

“In 1966 and 1967, James Turrell laid down the basis of his work in one bright flash when he realized the PROJECTION PIECES series, where each work used a halogen quartz spothlight to project a specific form of light into the angle of a corner or flat onto a wall. In a kind of way UFOs landing in the Occidental art world of the 1960s, the PROJECTION PIECES were recognized and understood by few.
Back then, California was a relatively distant territory on the geographical map of Occidental contemporary art. “A land of experiences and freedom”, says James Turrell, who was able to show all the Projections in 1967 at the Pasadena Art Museum and, along with the artist Robert Irwin and the perceptual psychologist Edward Wortz, receive sponsorship from the Los Angeles County Museum of Art in the Art and Technology rooms – some black and sound-proofed, others flooded with coloured light – in order to explore the effects that spending time in these circumstances would have on our vision. These experiments were used as studies for later works conceived in the 1970s and 80s.”
This solo exhibition of James Turrell presents a historical work from 1968 - "Prado, Red", a projection which is part of the his first iconic series and was shown at the Pasadena Art Museum; his Light Reflection pieces created in 2012, which capture light in three dimensions and made by the artist in Arizona; as well has his models of the Roden Crater made in bronze, plaster and resin.

James Turrell was born in 1943 in Los Angeles, he lives and works in Arizona. In 2013, James Turrell is the subject of a major 3-part retrospective in the United States which will be inaugurated on May 26 at the LACMA in Los Angeles, then at the Museum of Fine Arts in Houston on June 9th, and finally at the Guggenheim in New York on June the 21st.

DADAMAINO - GALLERIA DEL CREDITO VALTELLINESE, MILANO



DADAMAINO
a cura di Flaminio Gualdoni con Stefano Cortina
Galleria Gruppo Credito Valtellinese
Corso Magenta 59 - Milano
dal 30/5/2013 al 29/6/2013

Si inaugura il 30 maggio la prima ampia mostra retrospettiva che la città di Milano, e in particolare la Fondazione Gruppo Credito Valtellinese, dedica a Dadamaino dopo la sua scomparsa. La Galleria Gruppo Credito Valtellinese, spazio milanese dell’omonima Fondazione, propone dal 31 maggio al 29 giugno un'importante retrospettiva che raccoglie le opere più significative prodotte dal 1958 al 1998.
Cresciuta nel vivace ambiente milanese degli anni ’50, in cui la giovane generazione tenta vie diverse rispetto all’informale, Dadamaino è da subito nell’avventura di Azimut con Piero Manzoni ed Enrico Castellani, e guarda a Lucio Fontana come al proprio maestro. Le serie dei Volumi e dei Volumi a moduli sfasati, con i quali prende parte alle maggiori mostre europee del tempo, la afferma come una figura primaria dell’arte nuova.
Vengono in seguito l’adesione a Nouvelle Tendance, opere di più chiara ispirazione ottico - cinetica e neocostruttiva, e una lunga stagione di fervida militanza politica. Alla metà degli anni ’70 Dadamaino avvia la sua stagione di straordinaria maturità, con serie come Alfabeto della mente e I fatti della vita, che espone in una sala memorabile alla Biennale di Venezia del 1980. Inizia qui il suo lungo viaggio nel segno insignificante e nel tempo della scrittura, che ne fa per certi versi una figura affine ad artisti come Roman Opalka e Hanne Darboven.
Nascono dagli anni ’80 serie come Il movimento delle cose, che presenta alla Biennale di Venezia nel 1990, Passo dopo passo, Sein und Zeit, che la consacrano come una delle figure di maggior spessore poetico della ricerca contemporanea.
Tra le grandi personali che si tengono in quegli anni, fanno spicco quella al Padiglione d’arte contemporanea di Milano nel 1983, alla Casa del Mantegna di Mantova e alla Stiftung für Konkrete Kunst di Reutlingen nel 1993, al Museo di Bochum nel 2000.

La mostra presenta un ampio repertorio di opere che documentano tutte le stagioni di Dadamaino, in cui figurano tra l’altro realizzazioni imponenti come una versione de Il movimento delle cose, inedita, che si sviluppa su una lunghezza di trenta metri. La mostra, prodotta e organizzata dalla Fondazione Gruppo Credito Valtellinese in collaborazione con l’Archivio Dadamaino, è a cura di Flaminio Gualdoni con Stefano Cortina, coordinamento di Susanne Capolongo. Per l’occasione viene edito un ampio catalogo con testi introduttivi dei curatori e di Elena Pontiggia.

Immagine: Dadamaino: Oggetto ottico dinamico , 1961-1962 , Alluminio su tavola , cm 120x120

THE SONNABEND COLLECTION - CA' PESARO, VENEZIA



THE SONNABEND COLLECTION
a cura di Gabriella Belli
con il supporto scientifico di Antonio Homem Nina Sundell
Ca’ Pesaro, Galleria Internazionale d’Arte Moderna Venezi
a Santa Croce 2076 - Venezia
dal 31 maggio al 29 settembre 2013

Ileana Sonnabend è stata una delle più grandi e influenti scopritrici di talenti artistici della seconda metà del Novecento, conosciuta e apprezzata per l’intuito, la forza di carattere, la sua visionarietà precorritrice e quell’eclettismo di gusto e pensiero che le hanno permesso di comprendere e promuovere il nuovo nell’arte americana e europea.
La sua collezione straordinaria, creata in tanti anni dedicati a sostenere i giovani artisti e le avanguardie del Novecento, trova ora una “casa europea” nelle splendide sale monumentali del secondo piano della Galleria Internazionale d’Arte Moderna a Ca’ Pesaro.
La mostra, primo passo di una collaborazione a lungo termine con la Sonnabend Collection e la Sonnabend Collection Foundation, si presenta come una straordinaria opportunità di arricchire le collezioni d’arte cittadine del Novecento, a completamento del percorso espositivo permanente di Ca’ Pesaro, che proprio grazie alle opere della collezione di Ileana Sonnabend, potrà proporre al suo pubblico un itinerario più completo e ricco di capolavori nella storia dell’arte dell’intero XX Secolo.
Ecco allora che The Sonnabend Collection a partire proprio dal punto in cui si è interrotta l’avventura collezionistica di Ca’Pesaro e il suo rapporto con la Biennale, condurrà il visitatore in un percorso di altissima qualità artistica dentro i principali linguaggi sperimentali della seconda metà del Novecento, attraverso oltre 70 opere-icona di quegli anni.
In mostra si potranno ammirare capolavori notissimi come Figure 8 di Jasper Johns del ’59 e Interior (Combine painting) del 1956, Payload (1962) e Kite (1963) di Robert Rauschenberg, artista che Ileana contribuì, con Leo Castelli e Alan Solomon, a portare alla Biennale di Venezia del 1964, dove Rauschenberg vinse il Gran premio della Pittura. Accanto a questi maestri ci saranno i grandi esponenti della Pop Art: Jim Dine sarà in mostra con due bellissime opere e Claes Oldenburg con Roast Beef, di Roy Lichtenstein sarà esposto anche il famoso Little Aloha (1962), James Rosenquist con Balcony del ‘61, Tom Wesselman - Still life #45 e Seascape #14 – e soprattutto Andy Wharol presente con un nucleo incredibile di ben otto lavori, tra cui Nine Jackies (1964), Triple Rauschenberg, Cambell’s Soup Can (Turkey Noodle), entrambi del 1962.
L’esposizione chiude con una grande sala dedicata alla Minimal Art, tra le passioni, apparentemente contrastanti di Ileana, proponendo alcune importanti opere degli anni Sessanta dei padri del movimento, Donald Judd, Dan Flavin, Robert Morris, con le loro sculture composte da forme geometriche elementari, singole o ripetute, realizzate con materiali di preferenza industriali.

MATTA - FONDAZIONE QUERINI STAMPALIA, VENEZIA



MATTA
Roberto Sebastian MATTA – Gordon MATTA-CLARK – Pablo ECHAURREN MATTA
a cura di Danilo Eccher
Fondazione Querini Stampalia
Santa Maria Formosa, Castello 5252 - Venezia
dal 28/5/2013 al 18/8/2013

In concomitanza con la 55. Biennale di Venezia, la mostra vuole indagare le idee e i pensieri che si sono tramandati – attraverso le generazioni, il tempo e la geografia – da Roberto Sebastian Matta ai suoi figli Gordon Matta-Clark e Pablo Echaurren Matta.
Tre nomi, tre storie, tre paesi e un unico comun denominatore: l'arte. In concomitanza con la 55. Biennale di Arti Visive di Venezia e per la prima volta insieme, la mostra organizzata e prodotta dalla Galleria d'Arte Maggiore – G.A.M. di Bologna, riunisce negli spazi dell'area Scarpa della Fondazione Querini Stampalia, tre grandi protagonisti dell'arte internazionale. Gordon Matta-Clark e Pablo Echaurren Matta non hanno in comune solo il padre Roberto Sebastian Matta, figura storica che con le sue tele e le sue sculture ha preso parte al Surrealismo ed influenzato gli artisti americani dell'Espressionismo Astratto, ma con due stili espressivi differenti sono entrambi due personaggi di rilievo della scena artistica contemporanea.
La mostra, curata da Danilo Eccher, prende origine dall'opera di Roberto Sebastian Matta ed attraverso le opere dei suoi protagonisti percorre mezzo secolo di storia dell'arte, vissuta in tre paesi differenti: la Francia, gli Stati Uniti e l'Italia. Lo spaccato che ne deriva non è delimitato dalla loro storia familiare, per quanto eccezionale, ma amplia i propri confini all'ambiente culturale e politico in cui questi artisti sono stati profondamente coinvolti. Figli dello stesso padre, ma di madri differenti, sia Gordon che Pablo hanno avuto un rapporto conflittuale con la figura paterna ed attraverso l'arte entrambi hanno cercato un dialogo concettuale - impossibile nella vita privata - con Matta attraverso le loro opere pur maturando entrambi, ed ognuno a suo modo, linguaggi singolari e differenti. Se l'affinità con Matta-Clark è riconducibile a un livello formale, estetico-architettonico, in Echaurren l'affinitudine è da ricercarsi nel carattere più propriamente concettuale.
Il filo conduttore della loro opera a livello critico sarà svelato da Danilo Eccher solo pochi giorni prima dell'apertura al pubblico, ma ad una prima lettura emerge già come la socialità, la continua ricerca di un rapporto non solo di partecipazione del fruitore, ma di un suo coinvolgimento diretto o indiretto, fisico o mentale, culturale o sociale, interno o esterno all'opera sia presente nell'opera dei tre. Non è un caso infatti se alcuni definiscono le figure antropomorfe di Matta sia in pittura, sia in scultura, come "morfologie sociali", come una trasfromazione di passaggio tra i paesaggi interiori e il mondo esterno. Per Gordon la socialità è un fattore ancora più evidente, essendo la sua effimera arte basata sulla performance, sui "building cuts", gli edifici tagliati, trasformazioni sculturali di architetture preesistenti dove lo spettatore è invitato ad entrare per muoversi fisicamente ed emozionalmente in quegli spazi. Nella sua opera Matta-Clark crea un rapporto diretto con il fruitore, spesso basato sulla fiducia che costui deve devolvere all'operato dell'artista che come in Matta ha fondamenti architettonici. Mentre per quanto riguarda Pablo tutta la sua vita artistica è immersa nella socialità, nella sua esistenza quotidiana. E se è vero che le sue tele riportano al mondo dei fumetti, della musica, della street art, alla cultura di massa, è attraversando la sua iconografia Pop fatta di contiminazioni di generi che dialogano ora con il Dadaismo, ora con lo stesso Surrealismo, che l'artista propone con ironia attraverso l'apparizione di una natura familiare ed allo stesso tempo inquietante una critica diretta alla società dei consumi. Proprio come sembrano suggerire le figure antropomorfe e primitive presenti nei dipinti del padre. Non a caso l'opera di Matta mira anche a una riflessione sull'impatto che la tecnologia ha sull'esistenza umana.

Roberto Sebastian Echaurren MATTA (Santiago, Cile, 1911 – Civitavecchia, Italia, 2002)
Nato a Santiago del Cile, dopo gli studi in architettura Roberto Sebastian Matta si dedica alla pittura a partire dal 1934 quando si trasferisce a Parigi. Gli incontri di questi anni sono stimolanti e fondamentali: nella capitale francese lavora per Le Corbusier, a Madrid entra in contatto con intellettuali del calibro di Federico Garcia Lorca e a Londra frequenta Walter Gropius. Ma è a Parigi che conosce André Breton e Salvador Dalì, aderendo e dando impulso alla nascita del Surrealismo. Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale accetta l'invito dell'amico Marcel Duchamp e si trasferisce a New York dove si inserisce nell'ambiente cosmopolita, rivestendo un ruolo di primo piano per la generazione di artisti successiva che avrebbero poi dato origine all'Espressionismo Astratto americano. I rapporti con questi artisti, e con i surrealisti rimasti a Parigi, sono però destinati a incrinarsi quando Matta è accusato di aver provocato il suicidio di Gorky per avere avuto una relazione con sua moglie. Alla fine degli anni Cinquanta, Matta è già un artista di fama internazionale, mentre nel 1971 la rivista francese Connaissance des Arts, lo colloca nella top ten dei dieci migliori pittori contemporanei del mondo e nel 1985 il Centre Georges Pompidou gli consacra una grande retrospettiva. Nel 1990 torna a Parigi passando dei periodi in Italia a Tarquinia, dove installa uno studio, una scuola di ceramica e una sala di esposizioni. Si spegne a Civitavecchia nel 2002.
Le sue opere sono conservate in alcuni dei più importanti musei del mondo, solo per citarne alcuni: il Museum of Modern Art di New York, il Centre Pompidou a Parigi, il Fine Art Museum di San Francisco e la Galleria d'Arte Nazionale di Roma.

Gordon MATTA-CLARK (New York, USA, 1943 – 1978)
Gordon Matta-Clark è un artista americano attivo durante gli anni Settanta e meglio conosciuto per i suoi "building cuts", edifici tagliati: trasformazioni sculturali di edifici abbandonati realizzati attraverso tagli e smantellamenti di siti architettonici strutturati. Figura catalica del decennio per la storia e lo sviluppo di SoHo a New York, la sua arte mette in discussione lo stesso statuto di opera d'arte. Utilizzando la performance come metodo espressivo preferenziale, la gran parte del suo lavoro si basa su frammenti architettonici, oggetti decomposti, ma anche esperimenti culinari giunti oggi a noi attraverso una serie documentazione fatta di video, foto e films. Operativo sia negli Stati Uniti che in Europa, la prematura scomparsa a soli trentacinque anni non gli ha impedito di diventare una superstar sulla scena internazionale dell'arte contemporanea. Le opere di Matta-Clark sono infatti presenti in grandi collezioni pubbliche: il Metropolitan Museum of Art e il MoMA di New York, il Museum of Contemporary Art di Chicago, il MoCA di Los Angeles, il Museum van Hedendaagse Kunst Antwerpen ad Antwerp, il San Francisco Museum of Art, lo Smithsonian American Art Museum a Washington DC, il Solomon R. Guggenheim Museum di New York, lo Stedelijk Museum di Amsterdam e il Whitney Museum of American Art di New York.

Pablo ECHAURREN MATTA (Roma, Italia, 1951)
Pablo Echaurren ha iniziato a dipingere a diciotto anni ed è stato presto scoperto da Arturo Schwarz. Sul background della pop art, dell'arte povera, del minimalismo e dell'arte concettuale, ha incominciato a sviluppare il suo universo lessicale agli inizi degli anni Settanta quando si dedica a vari temi: dal mondo delle miniature ai segni del mastro giapponese Hokusai, dalle citazioni dal mondo del fumetto di Roy Lichtenstein alle immagini dei libri scientifici sulla storia naturale, la zoologia e la botanica. In un secondo tempo il confronto con l'eredità iconografica della storia dell'arte si espande in un dialogo costante con le avanguardie: il Futurismo, il Dadaismo, il Cubismo, lo stesso Surrealismo che rivista con l'occhio di un abitante del villaggio globale, nutrito di messaggi delle telecomunicazioni e dei mass media. L'arte di Pablo Echaurren si muove in molte direzioni, in salti costanti, dai dipinti ai collage, dalle copertine dei libri e dei fumetti alle ceramiche, ai video, ai testi. Si impone così l'idea dell'artista-artigiano in tutti i campi, indipendentemente dalle barriere e dalle gerarchie che di solito confinano l'attività creativa. La relazione tra Pablo e i giovani è sempre molto stretta e lo stesso si dica per i movimenti sociali. Autore di saggi, romanzi e brevi racconti, Pablo ha anche pubblicato una serie di biografie illustrate, dedicate a Filippo Tommaso Marinetti, Picasso, Ezra Pound ed altri.

SALON SUISSE: THE LOSS AND THE GAIN OF PLACE - PALAZZO TREVISAN DEGLI ULIVI, VENEZIA 1/6/2013



SALON SUISSE
THE LOSS AND THE GAIN OF PLACE
Contemporary Art in a Translocal Perspective
panel discussion with Monica Juneja (University of Heidelberg) and Jörg Scheller (curator of the Salon Suisse)
Palazzo Trevisan degli Ulivi
Campo S.Agnese - Dorsoduro 810 - Venezia
01.06.2013 11:00 AM

Contemporary art is often expected to meet conflicting requirements. It should represent authentic local spaces whilst being compatible with the globalized art system. It should show highly individualistic traits and at the same time carry with it specific cultural values. Prof. Monica Juneja, who has worked at universities in Austria, France, Germany, India, and the U.S., is an expert on art poised between globalization and locality, diversity and homogeneity. Juneja and Scheller will discuss the "burden of representation" contemporary art is still confronted with, and ask how a "translocal" and "transcultural" art could look like.

VITO ACCONCI - FRANCO VACCARI: INTERSECTION - PALAZZO PESARO PAPAFAVA, VENEZIA



VITO ACCONCI - FRANCO VACCARI
INTERSECTION
a cura di Valerio Dehò
Palazzo Pesaro Papafava
Fondamenta di Cannaregio, 3764 - Venezia
dal 31/5/2013 al 7/9/2013

Vito Acconci (1940) e Franco Vaccari (1936) sono due artisti tra i maggiori esponenti delle avanguardie contemporanee che, senza mai ripetersi, senza mai inseguire mode, sono riusciti a rimanere coerenti nella sperimentazione, consolidando la personale pratica artistica senza trascurare di sorreggerla sempre con un’adeguata consapevo- lezza teorica. Per la prima volta vengono riuniti insieme in una grande esposizione che racchiude le tappe più significative del loro lavoro, dagli esordi ai nostri giorni, mettendolo a confronto con le debite distanze, ma anche con gli elementi di comu- nanza di percorso e di ricerca. I due artisti, pur non avendo avuto contatto diretto tra loro, hanno sviluppato un percorso artistico parallelo, se pur diversificato, che include la poesia visiva, le performances, la fotografia, la pellicola ed il video. Fin dalla metà degli Anni Sessanta entrambi lavorano nella sperimentazione della Poesia Visiva, allontanandosi dalle forme più comuni della rappresentazione poetica del loro tempo. Negli Anni Settanta l’interesse dei due artisti si concentra poi verso il coinvolgimento diretto del pubblico.

Acconci lo fa attraverso le sue notissime performances legate alla dimensione del corpo usando quasi esclusiva- mente piccole stanze o celle, zone ridotte come spazio dove si possa rappresentare il proprio agire privato. Da allora l’opera di Acconci si caratterizza dal rischio e dalla sofferenza e a mano a mano si fa coinvolgere completamente dalle azioni compor- tamentali sconcertando il suo pubblico. A tal proposito è esplicativa la performance Seed-bed, che si svolge nel 1972 alla galleria Sonnanbed di New York in cui l’artista si masturba sotto il pavimento della galleria e il pubblico può ascoltarlo ma non veder- lo. Nello stesso anno Franco Vaccari presenta alla Biennale di Venezia Esposizione in tempo reale num.4, lascia una traccia fotografica del tuo passaggio installando una cabina Fotomatic nella propria sala personale del padiglione veneziano, lasciata completamente spoglia ad eccezione di una scritta in quattro lingue diverse posta su una parete che invitava il visitatore a diventare parte dell’opera, facendosi una fototessera per poi appenderla al muro. Verso la metà degli anni Settanta Acconci abbandona le performances e realizza delle installazioni spaziali, anche se la sua voce comunque è sempre presente per creare una sorta di partecipazione comunitaria. Negli Anni Ottanta il suo interesse dello spazio lo ha condotto a dar vita all’Acconci Studio, un gruppo di architetti che con le loro proposte collaborano con l’artista alla realizzazione di progetti che pro- pongono interventi di natura ambientale e architettonica, analizzando il concetto di casa e ambiente.

Anche Vaccari realizza alcune opere che si possono ricondurre ad un interesse architettonico. Nella cittadina di Bregenz, Austria è stato costruito un museo d’arte moderna sul quale sovrasta la scritta: ‘kunsthaus’ che significa ‘casa dell’arte’ e nel 1998 Franco Vaccari vi è stato invitato in occasione della mostra ‘Arte in città’. Di fianco all’ingresso l’autore ha realizzato una costruzione che fosse l’opposto, per materiali, dimensioni, estetica e imponenza, rispetto a questo enorme edificio. Ha inoltre collocato un’insegna luminosa su questo piccolo edificio, in cui era scritto ‘kunsthäuschen’ che significa ‘casetta dell’arte’. La mostra è realizzata con la diretta collaborazione degli artisti e dello Studio Acconci e costituisce un dialogo a distanza tra l’arte europea e statunitense, una verifica storica di consonanze teoriche e di operazioni artistiche ancora in attesa di una adeguata storicizzazione. L’esposizione è realizzata con la collaborazione della galleria Michela Rizzo di Venezia e della galleria p420 di Bologna.

THIS IS NOT A TAIWAN PAVILION - PALAZZO DELLEPRIGIONI, VENEZIA



THIS IS NOT A TAIWAN PAVILION
Palazzo delle Prigioni
riva Degli Schiavoni, Castello 4209 - Venezia
dal 30/5/2013 al 24/11/2013

La mostra esprime, attraverso l'identita' dello straniero, le preoccupazioni diffuse attorno al tema pressante della coesistenza nel mondo odierno. I tre progetti realizzati da Bernd Behr, Chia-Wei Hsu e Katerina Seda' + BATEZO MIKILU colgono le relazioni di natura politica tra immaginazione e realta', indagando il modo in cui la critica che puo' nascere dalla soggettificazione o dallo straniamento possa essere utilizzata per la percezione di una nuova varieta' di possibili forme di identita' culturale.

EMERGENCY PAVILION: QUE NO ME OLVIDEN, REBUIDING UTOPIA - TEATRO FONDAMENTA NUOVE, VENEZIA



EMERGENCY PAVILION
QUE NO ME OLVIDEN, REBUIDING UTOPIA
a cura di Jota Castro
Teatro Fondamenta Nuove
Fondamenta Nuove, 5013 (Cannaregio) - Venezia
dal 30/5/2013 al 10/11/2013

Sono passati 40 anni senza che ce ne accorgessimo. La mostra sara’ un gioco: cosa e’ successo negli ultimi 40 anni? Cosa ha funzionato e cosa no, cosa e’ comparso, cosa e’ sparito? Quando ha cominciato a cambiare il mondo? Nel 1973? Nel 1989? Quando e’ morta la “imagination au pouvoir”, nel 1968 o nel 2012? O solamente il 1° Gennaio 2013?
Se un fantasma attraversera’ la mostra, questo sara’ il fantasma di un morto senza nome. Proprio quello che desidero’ un cambiamento, sbaglio’, cadde nel dubbio, tradi’, amo’, ed ora non e’ piu’ tra noi, ma si ripresenta nel mondo solo quando lo si richiama in vita attraverso il ricordo. In maniera particolare, ogni giorno in cui una triste pioggia cade su Wall Street... ogni volta che un individuo dotato di cervello visita la Cina, sul volto di ogni negro sprovvisto del giusto passaporto, in realta’ in ogni giorno trascorso senza pace. Comunque sia, il fantasma in qualche modo ricomparira’, forse in una calle di Venezia, e li’ rimarra’.
Il titolo della mostra: “Emergency Pavilion: Que No Me Olviden, Rebuilding Utopia”, e’ il concetto che funge da filo conduttore della proposta curatoriale. L’ idea di utopia ha a che fare con forme diverse di pensiero riguardanti un mondo migliore, e la possibilita’ dell’ arte di contribuire ad immaginare un tale mondo. Se l’arte, durante tutta la sua storia, si e’ caratterizzata come rappresentazione, ma anche immaginazione, del reale, questo progetto si incentrera’ su pratiche artistiche che pongono l’ accento sul cambiamento, sulla riorganizzazione della realta’, sull’ immaginazione di un universo migliore.

Organizzazione: MAC (Museo de Arte Contemporaneo de Santiago de Chile); Fundacion CorpArtes

Artisti:
Ella de Burca (Ireland)
Jota Castro (France/Peru)
Patrick Hamilton (Chile)
Emily Jacir (Palestine)
Cinthia Marcelle (Brazil)
Teresa Margolles (Mexico)
Wilfredo Prieto (Cuba)
Santiago Sierra (Spain)
Jorge Tacla (USA/Chile)

MIMMO PALADINO: GRAFICA E LIBRI ILLUSTRATI - GALERIE BORDAS, VENEZIA



MIMMO PALADINO
Grafica e libri illustrati
Galerie Bordas
San Marco, 1994/B (vicino al Teatro La Fenice) - Venezia
dal 31/5/2013 al 30/6/2013

La Galerie Bordas, in occasione della 55° Biennale d’Arte, presenta un'ampia selezione di grafica (dalle acqueforti degli anni ottanta come Il sognatore o Figure semplici, alle litografie degli ultimi anni come Storia dell’aeroplano o alla serigrafia e linoleum Spirale d'idee) e libri illustrati (come Poesie di Constantinos Kavafis, Il lupo e l’agnello di Esopo, Il fuoco nel mare di Sciascia, Tartre di Céline, Voielles di Rimbaud) dell’artista Mimmo Paladino, documentate da un catalogo pubblicato per l’occasione e presentato da Enzo Di Martino, con scritti di Hervé Bordas e Silvia Soliani.
La mostra ricostruisce il percorso unico di un artista che ha saputo continuamente confrontarsi con le tecniche incisorie. Da una parte per l’importanza dell’intero corpus, più di 800 grafiche, dall’altra, soprattutto, per l’originalità perseguita da Paladino nella pratica della grafica, e in particolar modo per la molteplicità delle tecniche utilizzate, non solo all’interno di una stessa famiglia (come puntasecca e acquaforte) ma soprattutto con l’accostamento fra le tecniche più svariate, linoleum-serigrafia per esempio, oppure litografia-xilografia. Come se l’artista, invece di ripararsi dietro gli arcani di una precisa tecnica, cercasse di rimettersi in questione ogni volta e sorprendersi, scoprendo nuove formulazioni e mezzi espressivi. «Mi piace condizionarmi alla tecnica, accettarne le regole, ma anche scombinarla quando è possibile» e, allo stampatore Bulla, dice «So bene cosa si può fare sulla pietra litografica, è quello che non si può fare che m’interessa». La grafica, sempre work in progress, diventa un laboratorio per la scoperta di nuovi territori, parte integrante e prolungamento dell’opera.

THE LEGACY OF EMILY HARVEY - EMILY HARVEY FOUNDATION, VENEZIA 31/5-2/6/2013



THE LEGACY OF EMILY HARVEY
A WORK IN PROGRESS
San Polo 387 - Venezia
dal 31/5/2013 al 2/6/2013

Questa mostra e' parte del progetto per la presentazione della collezione Emily Harvey e di opere degli artisti residenti presso la Fondazione. 
Inaugurazione 31 maggio dalle 16,30 alle 19,30.

mercoledì 29 maggio 2013

DA GIORGIO FRANCHETTI A GIORGIO FRANCHETTI - CA' D'ORO, VENEZIA


DA GIORGIO FRANCHETTI A GIORGIO FRANCHETTI
Collezionismi alla Ca' d'Oro
a cura di Claudia Cremonini e Flavio Fergonzi
Galleria Giorgio Franchetti alla Ca’ d’Oro
Cannaregio n. 3932 (Strada Nuova) – Venezia
dal 30/5/2013 al 24/11/2013

Le opere, meglio i capolavori, di due straordinari collezionisti, nonno e nipote, vengono, per la prima volta, riuniti alla Ca’ d’Oro, la dimora che il primo, il barone Giorgio Franchetti, scelse per contenere i suoi tesori poi messi a disposizione di tutti.
Accanto alle raccolte antiche del nonno, per la durata della mostra, viene esposta la non meno rara collezione di Giorgio jr che documenta, in modo esemplare, il nuovo dell’arte italiana del secondo dopoguerra.
Dal 30 maggio al 24 novembre, questo accade nella mostra – evento “Da Giorgio Franchetti a Giorgio Franchetti. Cà d’Oro” proposta dalla Soprintendenza per il Polo Museale Veneziano, Soprintendente Giovanna Damiani, in collaborazione con MondoMostre, a cura di Claudia Cremonini e Flavio Fergonzi.
Non è ancora stato dimostrato che tra i geni trasmessi ci sia anche quello per il collezionismo d’arte. Ma questa tesi trova sicuramente una conferma nel caso di due collezionisti, nonno e nipote, uniti dalla stessa passione oltre che dal nome: Giorgio Franchetti. Diversissime le loro collezioni di opere d’arte, diversissimo del resto era anche il momento storico e le condizioni in cui vissero e operarono.
Il barone Franchetti amava l’arte antica, i maestri minori, le opere rare e non ancora famose. Il nipote, Giorgio jr, l’arte del suo tempo e del suo ambiente, ovvero la Roma degli anni ’50 e ’60 del ‘900, momento di innovazione e nuovi fermenti, da lui colti e persino stimolati. In entrambi emerge sempre il rapporto intimo e intuitivo con l’opera d’arte, profondamente personale, anticonformista e refrattario alle mode imposte dal mercato, che è ciò che lega geneticamente i due protagonisti della mostra.
Della competente passione del primo per l’arte antica, soprattutto rinascimentale, - è frutto una collezione originalissima di maestri toscani e centro italiani da Giambono a Mantegna, da Tiziano, Tintoretto, Paris Bordon sino a Guardi, ma anche van Eyck e van Dicck, Paul Brill o Joachim Patinier.
Il nipote Giorgio Franchetti, deceduto da pochi anni (2006), collezionò Tano Festa, Cy Twombly, Enrico Castellani, Piero Manzoni, Alighiero Boetti, Gino De Dominicis, Mimmo Rotella, Mario Schifano, Ceroili, Fabro, Luigi Ontani… e se fece qualche concessione allo “storico” fu per Balla. Queste opere vengono riunite dopo la dispersione che è seguita alla scomparsa del collezionista, nel “portego” del secondo piano di Cà d’oro.
Ad essere coinvolti nella grande esposizione dedicata ai due Franchetti sono tutti gli spazi della Ca’ d’Oro, lungo un percorso che prende avvio dalla suggestiva corte interna del palazzo ove riposano le ceneri di Giorgio sr. e prosegue al primo piano con una sezione tutta dedicata al fondatore del Museo, alla sua famiglia (bellissimi i ritratti di Franz von Lenbach, per la prima volta esposti) e alla munifica donazione della Ca’ d’Oro e della sua collezione allo Stato, nel 1916. Cuore sacralizzato e affettivo della Collezione del Barone è la cosiddetta Cappella del Mantegna da lui ideata per accogliere il dolente San Sebastiano. Il capolavoro di Andrea Mantegna assurge a simbolo dell’impegno tenace e ostinato del nobiluomo di fare della Ca' d'Oro un luogo eletto di bellezza e arte, alla sua stessa vicenda-umana, segnata da un "sogno di universalità del bello" spinto spesso fino alla ricerca sofferta e sfibrante della perfezione: «In basso, ai piedi del santo, il Mantegna ha dipinto un torcetto acceso che, sotto quello spasimo imprigionato in tanto poco spazio, fumiga come sotto un vento d'uragano. Franchetti ce lo indicò, con un mesto sorriso: - Vedi questo piccolo cero. Sono io. E m'illudo di fare un poco di luce», dice Giorgio Franchetti accompagnando in visita l’amico Ugo Ojetti.

NANNI BALESTRINI: TRISTANOIL - S.A.L.E. DOCKS, VENEZIA



NANNI BALESTRINI
TRISTANOIL
a cura di Martina Cavallarin
S.A.L.E. Docks
Dorsoduro, 265 (Punta della Dogana) - Venezia
dal 30/5/2013 al 30/9/2013

Giovedì 30 Maggio 2013, alle ore 18:30, sarà inaugurata la mostra e sarà proiettato il film Tristanoil – Il film più lungo del mondo di Nanni Balestrini, presentato in anteprima a Kassel in occasione di dOCUMENTA (13).
Dopo Milano (Fondazione Marconi), Firenze (Frittelli Arte Contemporanea), Roma (Museo Macro), Torino (Galleria Martano), Napoli (Fondazione Morra) e Genova (Palazzo Ducale) la proiezione prosegue il suo gioco combinatorio all’insegna del riassemblaggio presso il S.a.L.E. Docks – Magazzini del Sale – Venezia, organizzata dalla Galleria Michela Rizzo in collaborazione con la Fondazione Morra di Napoli, con la curatela di Martina Cavallarin.
Tristanoil è, infatti, un film generato attraverso un computer che amalgama, in capitoli di dieci minuti ciascuno, oltre 150 videoclip in modo che ogni unità sia diversa dall’altra pur trattando il medesimo argomento: gli effetti distruttivi del petrolio sul pianeta. Attivando un processo contrario rispetto alla standardizzazione delle immagini proposte dai film o dai programmi delle tv commerciali, Balestrini combina gli effetti elettronici con diversi materiali video: grazie al programma ideato da Vittorio Pellegrineschi e all’elaborazione video di Giacomo Verde, l’artista utilizza la tecnica del cut-up (smontaggio-montaggio-rimontaggio) per creare una ricombinazione visiva di sequenze video della nota serie televisiva americana Dallas, di news di disastri ecologici, d’immagini frenetiche della borsa, delle favelas e di episodi di cronaca, affiancate da frasi lette dallo stesso autore e tratte dal suo iperomanzo Tristano (1966), edito nel 2007 in volumi tutti diversi fra loro. Adottando ancora una volta un procedimento narrativo basato su un flusso verbale ininterrotto, l’artista rinnova la sua intensa ricerca in campo letterario e tecnologico dedicandosi alla tematica e l’allarme ambientale.
L’appuntamento espositivo si pone, quindi, come nuova occasione per approfondire la sua poetica e il suo impegno sociale, volto a rendere reattivo il pubblico riguardo a una delle più imponenti minacce per il nostro pianeta, sia per i disastri provocati, sia per le speculazioni finanziarie implicate. Ancora una volta, dopo 7.608 ore, 24 ore su 24, in 317 giorni di proiezione a dOCUMENTA (13) ed in importanti gallerie e musei italiani, ritorna la tematica della serialità della merce e dell’arte come prodotto massificato, dove l’oro nero avvolge immagini ingannevoli e lo sguardo dello spettatore stesso, ora coinvolto in un processo di creazione collettivo e infinito. Dopo aver viaggiato in diverse città, l’itinerario di Tristanoil prosegue ai Magazzini del Sale (S.a.L.E. Docks) a Venezia, dal 30 maggio al 30 settembre, parallelamente alla 55° Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia.
La mostra è organizzata dalla Galleria Michela Rizzo in collaborazione con la Fondazione Morra di Napoli.

NOISE - EX MAGAZZINI SAN CASSIAN, VENEZIA



NOISE
a cura di Alessandro Carrer e Bruno Barsanti
Ex Magazzini di San Cassian
2254 Calle della Regina - San Cassian – Sestiere Santa Croce - Venezia
dal 30/5/2013 al 20/10/2013

L’associazione De Arte porta a Venezia NOISE, una mostra curata da Alessandro Carrer e Bruno Barsanti, e inserita tra gli eventi collaterali ufficiali della 55. Esposizione Internazionale d’Arte – la Biennale di Venezia: nel centenario della pubblicazione de L'Arte dei Rumori del futurista Luigi Russolo, la mostra propone una riflessione sul rumore quale elemento portante di ogni processo artistico e comunicativo.
Nel senso comune il rumore rappresenta un'interferenza nell'ambiente e nella comunicazione: in acustica costituisce un fattore di disturbo rispetto all'informazione trasmessa, in elettronica il rumore indica l'insieme dei segnali indesiderati che si sovrappongono al segnale principale, mentre in psicologia produce un'interferenza causata dall'eccesso di informazioni. Il rumore non è però un semplice parassita che distorce un oggetto di comunicazione rendendolo fastidioso o incomprensibile, è piuttosto un elemento sempre presente e quindi parte integrante di ogni messaggio. Sebbene esso sia in grado di “rompere alcune connessioni, le connessioni continueranno a crescere in altre direzioni, dando vita a nuovi concetti e nuovi legami” (Deleuze).
L’”estetica del rumore” si delinea come esperienza dell'eccesso, un elemento di resistenza all'ovvio capace di fornire nuove dimensioni di relazione e di condurre direttamente alla vita dell'immaginazione. In altre parole, una delle possibilità dell'arte è di rendere densa di significatoquella parte della comunicazione che solitamente sfugge alla codificazione e alla comprensione, ovvero il rumore.
Dalle traduzioni visive di materiale acustico di Carsten Nicolai ai ritratti trascritti di Anne-James Chaton, dai virus informatici di Joseph Nechvatal alle installazioni sonore di Roberto Pugliese, e alle distorsioni di Pascal Dombis, tutti gli artisti in mostra adottano un modus operandi che pone la processualità in una posizione privilegiata rispetto alle esigenze di rappresentazione e individua in quello che potremmo definire errore, una condizione essenziale per rendere conto della complessità dell'esistente.
Dando credito alle affermazioni del caustico Ambrose Bierce (Dizionario del diavolo, 1911), secondo il quale il rumore, “Un puzzo che disturba l'orecchio ovvero una musica non addomesticata”, è pur sempre “il prodotto principale e il segno distintivo della nostra civiltà” gli artisti ricercano quel segno distintivo, l’origine di quell’errore che porta in sé l’impronta dell’umano.
Gli artisti in mostra: Anne-James Chaton, Pascal Dombis, Piero Gilardi, Lab[au], Joseph Nechvatal, Carsten Nicolai, Roberto Pugliese, Francesco Quarta Colosso, Pablo Rasgado, Andrea Rossi Andrea Ground Plane Antenna

Immagine: Roberto Pugliese, Aritmetiche Architetture Sonore (detail), 2012. Interactive sound installation - steel cables, speakers, audio playback system, environmental dimensions. Courtesy Studio la Città - Verona © Michele Alberto Sereni

ARMIN LINKE E DONATO DOZZY /RABIH BEAINI: TIME LAPSE - NEGOZIO OLIVETTI, VENEZIA

  

ARMIN LINKE E DONATO DOZZY /RABIH BEAINI
TIME LAPSE
Negozio Olivetti
Piazza San Marco, 101 (Procuratie Vecchie) - Venezia
dal 30/5/2013 al 24/11/2013

In occasione della 55. Esposizione Internazionale d'Arte della Biennale di Venezia il Negozio Olivetti, gioiello del FAI - Fondo Ambiente Italiano in piazza San Marco, ospita il progetto inedito TIME LAPSE. Armin Linke e Donato Dozzy/Rabih Beaini al Negozio Olivetti, a cura di Bartolomeo Pietromarchi, curatore del Padiglione Italia per cui ha ideato la mostra vice versa e Direttore del MACRO di Roma. La mostra presenta un'installazione sonora di Donato Dozzy, realizzata in collaborazione con il Dj e produttore Rabih Beaini, che propone una sonorizzazione elettronica, concepita a partire dal ticchettio delle macchine da scrivere Olivetti, oggi in esposizione nello showroom veneziano. Accanto all'installazione dei primi due artisti sarà possibile ammirare una serie inedita di scatti fotografici del Negozio realizzati appositamente da Armin Linke. TIME LAPSE costituisce quindi una vera e propria rilettura dell'architettura di Carlo Scarpa attraverso il suono e la fotografia.


THE IMMIGRANTS - EX BIRRIFICI DREHER, VENEZIA



THE IMMIGRANTS
a cura di Federico Luger
Ex birrifici Dreher
Giudecca, 800/r - Venezia
dal 30/5/2013 al 15/7/2013

Poche altre hanno la potenza icastica e la densità semantica della parola immigrante.
Il progetto artistico The Immigrants, ideato da Federico Luger, parte proprio da qui, da questo universo di senso che in poche lettere delimita un territorio - come una frontiera- e allo stesso tempo suggerisce un mondo altro, come un sogno.
Il titolo The “Immigrants” contiene in poche parole l’invito al viaggio, all’immaginazione di un futuro, la promessa di una terra immaginata o immaginaria, l’occasione di lasciarsi alle spalle le frontiere socio-politiche e forse l’invito a indossare un altro habitus mentale.
Come tutti i viaggi, anche The Immigrants è un progetto in fieri mosso dalla determinazione e dall’astuzia di scovare e costruire un’ alternativa a spazi saturi o semplicemente l’invito alla proiezione verso un futuro ancora tutto da disegnare, senza muoversi dal proprio ambiente in un gioco di abbandono e riconquista, di fiducia e di sogno.
In questo esperimento una collettiva di artisti appartenenti a diverse generazioni e nazionalità, si incontra sull’isola della Giudecca, un quartiere storico e popolare di Venezia, creando una sorta di terminal, di stazione di scambio in cui s’incrociano esperienze e visioni diverse, proprio come accadeva nei porti secoli or’ sono.
L’intenzione di questo esperimento è, infatti, quella di rileggere i concetti di limite, di frontiera e di appartenenza. Non a caso, The Immigrants ha come cornice privilegiata l’isola della Giudecca e come alloggio un’ex distilleria in disuso, accanto alla storica officina di Mariano Fortuny. Lambita dalle acque della laguna, l’isola della Giudecca rappresenta un osservatorio eccezionale per uno sguardo caleidoscopico sulla realtà del viaggio, allo stesso tempo distaccato, analitico e sognante.

Alighiero Boetti (Torino 1940-Roma 1994)
12 forme a partire dal 10 giungo 1967 è il primo lavoro che Boetti dedica alla geografia politica, spinto dalle continue notizie di focolai di guerra riportati dai giornali: dalla “battaglia del Sinai” scoppiata nel 1967 tra Egitto e Israele alla separazione del Bangladesh dal Pakistan nel 1971. “Ho ripreso tale e quale la prima pagina de “La Stampa” che riproduceva questa carta, ma cancellando tutto il resto - tranne la data - e l’ho incisa su una lastra di rame. Avevo capito che ogni volta che si trova una forma sulla prima pagina di un giornale […] qualcosa di importante si era prodotto.” In alto è indicata la data di pubblicazione dell'articolo. Private di qualsiasi carattere didascalico o illustrativo, le sagome dei territori si trasformano in pure “forme”, nate non dall'immaginazione dell'artista ma da ma da attacchi d’artiglieria, raid aerei e negoziati diplomatici.

Igor Eškinja (Rijeka 1975)
Il lavoro di Eškinja conduce l’osservatore sulla soglia fra “realtà oggettiva” e illusione, sul punto limite in cui si pone un oggetto ridotto al minimo sospeso tra le due dimensioni.
In mostra sono presenti due lavori paradigmatici della produzione dell'artista: Somewhere in East Europe (2010), che contrariamente al luogo comune per cui l'espressione artistica dell'est Europa sia pessimistica, si propone come un energico atto di positività attraverso l’immagine fotografica di un tavolo che proietta la frase luminosa sul pavimento.
The Day After (2011), della serie fotografica omonima, rappresenta con la stessa semplicità emotiva l’idea di vastità del mare, riprodotto fotografando della polvere, meticolosamente organizzata sul pavimento, raccolta nel posto stesso dell'installazione.
I lavori di Eškinja, nascono da effimere e complesse situazioni site-specific, raccontano la forza e la vitalità dell’arte che sopravvive al tempo e resiste alla sfuggevole mutevolezza del contesto umano, sociale e politico.

Franklin Evans (Reno 1967)
Evans continua ed espande la sua ricerca sul tema del tempo e la sua ripetizione, tema già presente nei suoi più recenti progetti espositivi.
L'installazione site-specific pensata per gli spazi della Giudecca è composta da dipinti e modulazioni architettoniche fatte di nastri colorati e, per la prima volta arricchite da una serie di fotografie.
Il tempo, la memoria e il materiale visivo si fondono in un unico ambiente avvolgente, evidenziando il feedback costante e non lineare tra di essi. Nell’elaborazione di Evans, l’immagine-tenda diventa una struttura, un’esperienza architettonica che guida lo spettatore attraverso un luogo virtuale.

Jacob Hashimoto (Greeeley Colorado 1973)
Hashimoto usa materiali eterei per creare opere che, in diversi strati, compongono insieme elementi caratteristici sia della pittura che della scultura, combinando quindi bidimensionalità e tridimensionalità. Le sue opere sono colorate e astratte, pur rimandando a elementi figurativi come onde o nuvole. La dimensione estetica non è superficiale, ma è parte intrinseca del suo lavoro.La sovrapposizione di diverse unità modulari, ripetute con grande virtuosismo, contribuiscono a creare l’opera in mostra come un tutto impattante e sottile allo stesso tempo.

Gianni Pettena (Firenze 1940)
Artista attivo negli Stati Uniti durante gli anni Sessanta e Settanta nel contesto del movimento Land Art, è stato anche esponente del movimento italiano Architettura Radicale.
In mostra sono presenti undici fotografie della serie Wandering Through-USA 1971-73. The Curious Mr. Pettena, intenzionalmente conservate dall’artista come un taccuino di appunti, come schizzi e non come opere finite. Sono sporche e vissute come appunti di un viaggio sofferto ma appagante, uno spaccato su una serie di fascinazioni documentate fotograficamente che hanno influenzato notevolmente le opere successive.
Pettena usa la fotografia da artista, le sue scelte dello strumento sono parte di una grammatica precisa. La serie prescelta è tratta da una selezione recentemente riscoperta in occasione della mostra personale presso gli spazi della galleria Federico Luger a Milano.

Luca Pozzi (Milano 1983)
Pozzi è ossessionato dalla coesione tra la grammatica artistica e quella scientifica.
I suoi sforzi sono finalizzati alla costruzione di un sistema visivo autosufficiente in grado di accogliere le recenti scoperte nel campo della gravità quantistica.
In mostra è presente “PI Wall String” un sistema pittorico a sette dimensioni (SU7) composto di 49 barre di alluminio mandorlato piegate a mano. Le polarità di ciascuna barra sono connesse a distanza attraverso l'attrazione magnetica di due palline da ping-pong colorate.
Coerentemente con la ricerca di Pozzi sulla Loop Quantum Gravity il lavoro determina l’emersione di pattern cromatico sospeso nel vuoto un ipotetico campo gravitazionale ricreato con la simbologia di oggetti ludici di uso comune.

Richard Prince (Panama Canal Zone 1949)
L'appropriazione (o re-photography) in Richard Prince è parte fondamentale del suo lavoro fin dagli anni 80. Dai celebri cow boys della Marlboro country agli oggetti di desiderio come gli orologi o le automobili prese da riviste di moda, rappresentano uno status dell'American way of life di quegli anni. Presente in mostra, Untitled - Angie Dickinson (1985), fa parte di una serie di fotografie nelle quali Prince si appropriò di film stills di film di Brian De Palma.

Giovanni Rizzoli (Venezia 1963)
Ha indagato le possibilità dell’arte praticando il disegno, la scultura e la pittura nonché ha creato numerose installazioni. L’artista ha sviluppato una specifica maniera di dipingere che chiama “pittura con la flebo” che non permette la scelta oltre al momento dell’apertura e della chiusura dello switch del deflussore e del posizionamento dell’ago, detto farfalla, sul tessuto. I lavori presente in mostra appartengo unicamente a questa serie perché Rizzoli trova questa pratica, che ha iniziato più di vent’anni fa, antropologicamente attualissima: a differenza delle esperienze di vari artisti degli anni sessanta, è l’atto formale che unisce all’espressione di una condizione umana, quella del tempo della guarigione e della malattia, la nuova possibilità di fare una pittura che si rivela essere simbolica, erotica, ma allo stesso tempo incontrollabile e dunque pittura come responso, quasi pittura divinazione.

Santiago Sierra (Madrid 1966)
È uno degli artisti più conosciuti nel panorama artistico internazionale. Ha esposto in prestigiosi musei ed istituzioni come MoMA PS1, New York; Reykjavik Art Museum; ARTIUM, Vitoria-Gasteiz; Museo MADRE, Napoli; 50° Biennale di Venezia; Tate Modern, Londra. Le opere in mostra dell’artista spagnolo fanno parte della serie Maiali che divorano le penisole Ellenica, Italica e Iberica. Queste immagini sono il risultato di un ciclo de performances iniziato nel 2012 ad Amburgo, in cui i maiali hanno “divorato” la penisola Ellenica; dopo a Lucca, la penisola Italica e finalmente a Milano, la penisola Iberica. La metafora è evidente: Le entità finanziarie europee che si stanno letteralmente mangiando territori reali.

Traslochi Emotivi (casa di produzione indipendente fondata da Giulia Currà nel 2010)
Il video presente in mostra, Kabul-Roma Roma -Kabul (2010) presenta il rapporto di amicizia e collaborazione artistica e professionale tra Salmon Alì e Alighiero Boetti. Alì racconta l'incontro con Boetti a Kabul nei primi anni settanta, e dal 75' in poi, invitato da Boetti, si concentra sul suo trasloco a Roma dove lavorerà accanto all'artista per tutta la vita, quasi come se Boetti fosse il suo alter ego. Il video Kabul-Roma Roma -Kabul è stato esposto a Spruth Magers London, Le Case d'Arte Milano e l'Auditorium Rai Torino.

martedì 28 maggio 2013

LV BIENNALE DI VENEZIA: IL PALAZZO ENCICLOPEDICO - GIARDINI, ARSENALE E SEDI DIVERSE, VENEZIA


55ma BIENNALE DI VENEZIA
IL PALAZZO ENCICLOPEDICO
a cura di Massimiliano Gioni
Giardini, Arsenale e sedi varie - Venezia
dal 29/5/2013 al 24/11/2013

Sarà aperta al pubblico da sabato 1° giugno a domenica 24 novembre 2013 ai Giardini e all’Arsenale la 55. Esposizione Internazionale d’Arte dal titolo Il Palazzo Enciclopedico, curata da Massimiliano Gioni e organizzata dalla Biennale di Venezia presieduta da Paolo Baratta. La vernice avrà luogo nei giorni 29, 30 e 31 maggio 2013. La cerimonia di premiazione e di inaugurazione si svolgerà sabato 1° giugno.
La Mostra sarà affiancata da 88 Partecipazioni nazionali negli storici Padiglioni ai Giardini, all’Arsenale e nel centro storico di Venezia. Sono 10 i paesi presenti per la prima volta: Angola, Bahamas, Regno del Bahrain, Costa d’Avorio, Repubblica del Kosovo, Kuwait, Maldive, Paraguay, Tuvalu e Santa Sede.
Novità assoluta è la partecipazione della Santa Sede con una mostra allestita nelle Sale d’Armi, in quegli spazi che la Biennale sta restaurando per essere destinati a padiglioni durevoli.
Il Padiglione Italia in Arsenale, organizzato dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali con la PaBAAC - Direzione Generale per il paesaggio, le belle arti, l’architettura e l’arte contemporanee - è curato quest’anno da Bartolomeo Pietromarchi.
La Mostra Il Palazzo Enciclopedico formerà un unico percorso espositivo che si articolerà dal Padiglione Centrale (Giardini) all’Arsenale, con opere che spaziano dall’inizio del secolo scorso a oggi, e con molte nuove produzioni, includendo più di 150 artisti provenienti da 37 nazioni.
“Nel corso di questi anni – spiega il Presidente Paolo Baratta - nella rappresentazione del contemporaneo è cresciuto il desiderio dei nostri curatori di mettere gli artisti in prospettiva storica o di affinità reciproca, evidenziando legami e relazioni sia col passato, sia con altri artisti del presente. Nello stesso tempo, rispetto all’epoca delle avanguardie, è cresciuta sempre più l’attenzione verso l’intensità della relazione tra l’opera e lo spettatore (viewer) il quale, ancorché scosso da gesti e provocazioni, alla fine ricerca nell’arte l’emozione del dialogo con l’opera, che deve provocare quell’ansia ermeneutica, quel desiderio di andare oltre che ci si attende dall’arte.”
“In questa direzione – prosegue Baratta - compie un passo decisivo la prossima Biennale che darà vita a una grande mostra-ricerca. Con Il Palazzo Enciclopedico Massimiliano Gioni, assai più che portarci un elenco di artisti contemporanei, vuole riflettere sulle loro spinte creative e sembra portare ancora più avanti il quesito: ma qual è il mondo degli artisti? L’interesse prospettico arriva al punto da ricercare relazioni con mondi diversi, per cui sono rappresentate opere di artisti contemporanei, ma anche opere del passato, riferimenti diversi, lavori che non hanno la pretesa di opere d’arte, ma che fanno parte degli stimoli a immaginare e sognare oltre la realtà, un’altra realtà. Insomma, quelle visioni che hanno nel tempo classico sollecitato le ‘aspirazioni’ degli artisti, nel tempo moderno le ‘ossessioni’ degli stessi, e a dar forma sensibile alle une e alle altre, fino al tempo presente, ove si verifica un vero e proprio capovolgimento. Oggi, ci sembra dire Gioni, è la realtà ordinaria a offrire su una tavola imbandita una pletora di immagini e visioni per l’uso quotidiano, e che tutte ci colpiscono senza possibilità di sfuggirle e che l’artista dovrebbe semmai attraversare restando indenne, come Mosè il Mar Rosso.”
La Mostra è ispirata all’utopistica idea creativa di Marino Auriti che nel 1955 depositò all’ufficio brevetti statunitense il progetto di un Palazzo Enciclopedico, un museo immaginario che avrebbe dovuto ospitare tutto il sapere dell’umanità. Auriti progettò un edificio di 136 piani che avrebbe dovuto raggiungere i 700 metri di altezza e occupare più di 16 isolati della città di Washington. “L’impresa rimase incompiuta – racconta Massimiliano Gioni - ma il sogno di una conoscenza universale e totalizzante attraversa la storia dell’arte e dell’umanità e accumuna personaggi eccentrici come Auriti a molti artisti, scrittori, scienziati e profeti che hanno cercato – spesso invano – di costruire un’immagine del mondo capace di sintetizzarne l’infinita varietà e ricchezza. Oggi, alle prese con il diluvio dell’informazione, questi tentativi di strutturare la conoscenza in sistemi omnicomprensivi ci appaiono ancora più necessari e ancor più disperati.”

“Sfumando le distinzioni tra artisti professionisti e dilettanti, tra outsider e insider, l’esposizione adotta un approccio antropologico allo studio delle immagini, concentrandosi in particolare sulle funzioni dell’immaginazione e sul dominio dell’immaginario. Quale spazio è concesso all’immaginazione, al sogno, alle visioni e alle immagini interiori in un’epoca assediata dalle immagini esteriori? E che senso ha cercare di costruire un’immagine del mondo quando il mondo stesso si è fatto immagine?”
“Il Palazzo Enciclopedico è una mostra sulle ossessioni e sul potere trasformativo dell’immaginazione” – continua Gioni. “Nei vasti spazi dell’Arsenale l’esposizione è organizzata secondo una progressione dalle forme naturali a quelle artificiali, seguendo lo schema tipico delle wunderkammer cinquecentesche e seicentesche. In questi musei delle origini – non dissimili dal Palazzo sognato da Auriti – curiosità e meraviglia si mescolavano per comporre nuove immagini del mondo fondate su affinità elettive e simpatie magiche. Questa scienza combinatoria – basata sull’organizzazione di oggetti e immagini eterogenee – non è poi dissimile dalla cultura dell’iper-connettività contemporanea.” Dalle numerose opere ed espressioni figurative in mostra, che includono film, fotografie, video, bestiari, labirinti, tavole enciclopediche, progetti, performance e installazioni, “emerge una costruzione complessa ma fragile, un’architettura del pensiero tanto fantastica quanto delirante. Dopo tutto – dice Gioni – il modello stesso delle esposizioni biennali nasce dal desiderio impossibile di concentrare in un unico luogo gli infiniti mondi dell’arte contemporanea: un compito che oggi appare assurdo e inebriante quanto il sogno di Auriti.”

“Se è vero - riflette Baratta – che il curatore sviluppa la sua riflessione sul destino dell’arte contemporanea e degli artisti - i quali non si accontentano di orizzonti limitati, quando immaginano, ma concepiscono realtà globali, mossi da aspirazioni a una conoscenza e a una sensibilità omnicomprensiva - non posso non richiamare alla memoria le ‘ossessioni’ di Harald Szeemann e il concetto di fallimento che le seguiva. Fallimenti fertili per l’arte; come dice Gioni, si tratta per l’artista di un movente molto forte e totalizzante. L’idea di una mostra-ricerca è ritenuta proficua in Biennale non solo per l’Arte ma anche per l’Architettura. Per questo motivo le Mostre di Gioni e Koolhaas (Biennale Architettura 2014) rappresenteranno momenti importanti nella storia della nostra istituzione.”

Il catalogo della 55. Esposizione contiene riproduzioni delle opere degli artisti in Mostra, testi monografici sugli artisti partecipanti e una sezione speciale di saggi, coordinati da Sina Najafi e Jeffrey Kastner, nella quale storici dell’arte, filosofi, accademici e scrittori affrontano, descrivono e discutono varie forme di ossessione, sistemi di conoscenza, avventure del sapere e altri viaggi dell’immaginazione. Sarà inoltre pubblicata una guida completa e dettagliata alla Mostra con brevi testi monografici su tutti gli artisti invitati alla 55. Esposizione: la guida include oltre 150 voci e testi e informazioni utili su tutti i Padiglioni nazionali e gli Eventi collaterali. Entrambi i prodotti editoriali sono realizzati da Marsilio Editori.

La 55. Esposizione Internazionale d’Arte è realizzata anche con il sostegno di Swatch, partner della manifestazione, ENEL main sponsor, e di Japan Tobacco International, Vela-Hello Venezia, illycaffè e EGI-Gruppo Poste Italiane. Ringraziamenti a Cleary Gottlieb Steen & Hamilton LLP e Gi Group.  

KATRIN SIGURDARDOTTIR - PALAZZO ZENOBIO, VENEZIA


KATRIN SIGURDARDOTTIR
Palazzo Zenobio
Fondamenta del Soccorso, Dorsoduro 2596 - Venezia
dal 29/5/2013 al 24/11/2013

For the Pavilion of Iceland at the 55th International Art Exhibition – la Biennale di Venezia in 2013, Katrín Sigurdardóttir has designed a large-scale sculptural intervention for the Lavanderia—The Old Laundry at Palazzo Zenobio. The artist has created a floating platform covered by an ornate, baroque-inspired design, measuring approximately 90 square meters. The outline of the architectural structure takes its form from the footprint of a typical 18th century pavilion. It intersects both interior and exterior spaces of this auxiliary building in the garden of the Palace, with two sets of stairs for access by visitors. The project is born from a career-long exploration of distance and memory and their embodiments in architecture, urbanism, cartography, and landscape. Sigurdardóttir’s work often includes highly detailed renditions of places, both real and fictional, that incorporate an element of surprise. The piece will travel to the Reykjavík Art Museum and then to the SculptureCenter in Long Island City, New York. Sigurdardóttir will adapt the sculpture to the new architecture of each location, yet it will maintain its original footprint as well as the cut-out memory of the walls of the previous sites.
Upon entering the work, visitors will first climb the stairs leading from the garden to the platform, and then bend down to pass through the truncated doors of the building. The work extends beyond the confines of the Lavanderia’s walls on three sides and allows the public to navigate diverse interior and exterior spaces. Visitors can also climb stairs to the roof of the building and look down on the sculpture’s large footprint and intricate patterns. The size of this architectural piece dwarfs the building, and thus takes on a familiar theme in Sigurdardóttir’s oeuvre, the playful manipulation of scale. Notably, Iceland lacks its own pavilion in the Giardini, and therefore the floating, disembodied structure of Sigurdardóttir’s sculpture takes on a special significance. The outline of the form becomes a metaphor for the outline of the national space.
Sigurdardóttir has worked with two curators in realizing the exhibition, Mary Ceruti, Executive Director and Chief Curator at SculptureCenter, and Ilaria Bonacossa, Director of Villa Croce, Contemporary Art Museum in Genova since 2012.
The Icelandic Art Center oversees the Pavilion of Iceland at la Biennale di Venezia in collaboration with the Reykjavík Art Museum, which will house Sigurdardóttir’s exhibition in Iceland after the project in Venice ends. The choice of the representative of Iceland at the 55th International Art Exhibition – la Biennale di Venezia was in the hands of a panel of experts, which consisted of: Dorothée Kirch, Director of The Icelandic Art Center, Ólöf Kristín Sigurdardóttir, Director of Hafnarborg The Hafnarfjordur Centre of Culture and Fine Art, and Hildur Bjarnadóttir, artist. Visiting members in the committee were Ragnar Kjartansson, artist, and Ólafur Gíslason, art historian. 

MILTOS MANETAS: THE UNCONNECTED - ORATORIO DI SAN LUDOVICO, VENEZIA


MILTOS MANETAS
THE UNCONNECTED
Oratorio di San Ludovico, Dorsoduro 2552 - Venezia
dal 29/5/2013 al 15/9/2013

In occasione della 55a Biennale Internazionale d'Arti Visive di Venezia, Associazione E e AmC Collezione Coppola sono lieti di presentare The Unconnected - III Padiglione Internet, un progetto di Miltos Manetas a cura di Francesco Urbano Ragazzi.
Dopo aver navigato assieme a ThePirateBay.org nel 2009 e aver conquistato l'isola di S. Servolo in una sera del 2011, per la sua terza edizione il Padiglione Internet trova sede nell'antico Oratorio di San Ludovico, una chiesa ancora consacrata del XVI secolo.
Sulle nude pareti della piccola cappella, Miltos Manetas interviene realizzando un ciclo di oli su tela ispirato alla pittura devozionale del Rinascimento veneziano. Tuttavia, se Vittore Carpaccio - ad esempio - glorificava nella Scuola di San Giorgio le gesta del santo cavaliere che uccise il drago, l'artista greco sceglie tutt'altro genere di patroni per la sua chiesa. Santi protettori del Padiglione Internet sono infatti gli Unconnected: quelle persone cioè che vivono ancora senza alcun account email o di social network, miracolosamente immuni dalla dipendenza dalla rete.
In un'epoca come la nostra, in cui il confine tra reale e virtuale è crollato, i disconnessi digitali sembrano proprio dei monaci o dei santoni che - volontariamente o meno - si distaccano dal mondo attraverso una pratica ascetica, liberandosi dal flusso caotico di immagini e informazioni. Ad illustrare loro com'è la vita ai tempi degli smartphones, tra vizi 2.0 e paradisi multimediali, ecco i dipinti "formato Tintoretto" di Miltos Manetas, i quali ritraggono i comportamenti e le posture di chi entra in contatto col web. Sguardi di meraviglia fissi sui piccoli schermi dei cellulari o espressioni pensose riprese dalle webcam dei PC animano tele di diverse dimensioni che, allestite in un luogo sacro, ricordano dei polittici o delle pale d'altare tanto quanto delle finestre aperte sul desktop di un computer.
Sapere chi sono veramente gli Unconnected non è facile. Proprio per questo la potenza della rete è stata messa alla prova. Una campagna di reclutamento è stata lanciata su Facebook nei due mesi precedenti all'apertura della Biennale. Agli utenti del social network è stato chiesto se conoscessero persone non connesse e di segnalare i loro nomi e cognomi allo staff del Padiglione Internet.
In poco tempo si è formato un rosario di identità dai profili più disparati: dai genitori di blogger molto noti a celeberrimi cantanti e showmen. Tra gli Unconnected ci sono ad esempio Luigi Ontani ed Enzo Cucchi, due tra gli artisti italiani più conosciuti nel mondo, oppure Donald Knuth, informatico e professore emerito alla Stanford University che a un certo punto della vita ha scelto di rinnegare internet.
La lista è ovviamente ancora incompleta. Per evocare all'interno del padiglione lo spirito degli Unconnected, alcune presenze agiranno nello spazio espositivo nel giorno dell'opening e nei mesi a venire. In particolare l'esperta di danza bharatanatyam Marianna Biadene e l'ingegnere informatico specializzato in interfacce neuronali Pasquale Fedele. L'incontro di frontiera tra danza contemporanea, rito e brain control, sotto il segno della pittura, darà vita ad un momento lirico, unico e irripetibile, che allontanerà lo spettatore dalla bulimia espositiva tipica della Biennale per consegnarlo a una dimensione contemplativa di pace interiore.
I multiformi risultati del III Padiglione Internet sono raccolti nel catalogo della mostra. La pubblicazione è un numero speciale di Solo, la rivista monografica prodotta da AcM Collezione Coppola: un elemento prezioso per decifrare la storia e i simboli di questo Padiglione Internet 2013. 

PEDRO CABRITA REIS: A REMOTE WHISPER - PALAZZO FALIER, VENEZIA


PEDRO CABRITA REIS
A REMOTE WHISPER
a cura di Sabrina van der Ley
Palazzo Falier, San Marco 2906 - Venezia
dal 29/572013 al 24/11/2013

A remote whisper è la straordinaria mostra dell'artista portoghese conosciuto in tutto il mondo Pedro Cabrita Reis, pensata appositamente per la 55. Esposizione Internazionale d'Arte - la Biennale di Venezia. L'artista presenta nei 700 metri quadri del piano nobile di Palazzo Falier un intervento monumentale, che invade le pareti e i pavimenti invitando il visitatore a intraprendere traiettorie casuali attraverso lo spazio, costruendo così un'intricata percezione dell'opera.
La mostra, curata da Sabrina van der Ley, Direttore per l’Arte Contemporanea del National Museum of Art, Architecture and Design di Oslo, è una ricostruzione in situ, semi-precaria, artigianale, che combina alluminio, vetro, lampade fluorescenti, disegni, quadri e foto.
Cabrita Reis, la cui ricerca mira da sempre a creare una forte relazione tra opera, spazio e fruitore, nel progetto di Palazzo Falier sottolinea la propensione a sovrapporre lo spazio dell'esposizione con quello del lavoro artistico.
Fin dall’inizio degli Anni '90, il suo lavoro ruota attorno a tematiche quali la casa, l'abitare, le costruzioni e il territorio. Oltre a creare lavori con elementi della vita quotidiana come sedie, tavoli, porte e finestre, l'artista compone opere che si impossessano dello spazio espositivo con strutture complesse e altrettanto pervasive.

“I suoi interventi, di natura quasi integralmente site specific, racchiudono una presenza persistente di percorsi che si incrociano, come reminiscenze o esperienze vernacolari appartentemente banali. Ogni lavoro si propone come inventario continuo del mondo e allo stesso tempo come un modello per la sua percezione. Questo personale e intricato metodo di costruzione, caratteristico del linguaggio dell’artista, è l’approccio prevalente nella mostra di Palazzo Falier, e assume i connotati di dialogo con uno spazio da vivere”.
-Sabrina van der Ley-

La mostra a remote whisper è organizzata per conto del Segretario di Stato per la Cultura del Portogallo con il supporto di Galerie Nelson-Freeman, Parigi | Ivorypress, Madrid | Magazzino, Roma | Mai 36, Zurigo | Peter Freeman Inc., New York

Nato nel 1956 a Lisbona, Pedro Cabrita Reis è considerato uno degli artisti portoghesi più importanti della sua generazione. Il complesso lavoro dell'artista è caratterizzato da un discorso filosofico e poetico che spazia tra vari media: pittura, fotografia, disegno e sculture, a volte composti da materiali di recupero e oggetti industriali. Utilizzando materiali semplici assemblati attraverso processi costruttivi, Pedro Cabrita Reis ricicla reminiscenze quasi anonime di gesti primordiali e di azioni che si ripetono di continuo nella vita quotidiana. Riflettendo su questioni legate allo spazio e alla memoria, il suo lavoro assume un potere di associazione così suggestivo da raggiungere una dimensione metaforica che supera l'elemento visivo. La complessa diversità teoretica e formale del lavoro di Cabrita Reis deriva da una riflessione antropologica che è contraria al riduzionismo del discorso sociologico. Il suo lavoro, infatti, è basato e costruito sull'indagine del non detto.
Pedro Cabrita Reis ha partecipato a numerose esposizioni internazionali, come Documenta IX (1992), la 21. e 24. Biennale di São Paulo (1994 e 1998), la 10. Biennale di Lyon (2009).
Nel 2003 ha rappresentato il Portogallo alla 50. Esposizione Internazionale d'Arte – la Biennale di Venezia. I musei e le istituzioni d'arte più importanti al mondo hanno dedicato a Cabrita Reis mostre personali. Tra questi, Tate Modern (Londra), Hamburger Kunsthalle (Amburgo), Serralves Museum of Contemporary Art (Porto), MACRO Museo d'Arte Contemporanea (Roma), Musée Carré d'Art (Nîmes), Centro de Arte Moderna - Fundação Calouste Gulbenkian (Lisbona), Museu Colecçao Berardo (Lisbona), Kunsthaus Graz (Graz), Museo Tamayo (Città del Messico), Museum M in Leuven (Lovanio) and Pinacoteca de São Paulo (San Paolo). 

ANTONI MUNTADAS: PROTOCOLLI VENEZIANI 1 - GALLERIA MICHELA RIZZO, VENEZIA


ANTONI MUNTADAS
PROTOCOLLI VENEZIANI 1
Galleria Michela Rizzo - Palazzo Palumbo Fossati
Fondamenta della Malvasia Vecchia - S. Marco 2597 - Venezia
dal 29/5/2013 al 31/8/2013

Il 29 maggio 2013 la Galleria Michela Rizzo di Venezia inaugura nella sua sede di Palazzo Palumbo Fossati il primo appuntamento del suo programma espositivo in concomitanza con la 55° Biennale di Venezia con la mostra di Antoni Muntadas Protocolli Veneziani I.
Antoni Muntadas dedica il suo lavoro a progetti che prevedono l'utilizzo dei media in funzione sociale e politica. La sua opera si sviluppa su due livelli: la percezione e l'informazione, dove la prima agisce a livello emotivo e la seconda stimola un ragionamento.
In questa mostra Muntadas, osservando Venezia, evidenzia quelle forme che egli identifica come “protocolli” a Venezia, intesi come, citando Angela Vettese, “modi di fare pratici, sistemi per riparare, combinazioni tecniche ritualizzate e consuetudini che si concretano in una serie di superfetazioni dell'abitato.” L'autore opera da un punto di vista che si fa personale, mettendo in luce le dinamiche legate all'abitare oggi la Laguna: protocolli che diventano essenziali, reinventandosi e adattandosi al procedere del tempo.
Protocolli Veneziani I, prima fase di un progetto su Venezia, è costituito da un insieme d'immagini attraverso le quali l'artista racconta le norme che regolano la vita della città creando un tessuto in cui gli abitanti sviluppano le proprie esistenze. Muntadas considera queste regole come ombre e riflessi indispensabili della storia di Venezia che si concretizzano in orme, tracce, segni, estetiche di un'architettura particolare.
L'ambizione sottesa a tale progetto è quella di mostrare il lato quotidiano della città nascosto agli occhi del turista, decostruendo e smontando la realtà, restituendoci solo frammenti o indizi. Emerge l'immagine di una città che vive il paradosso di una cultura locale oggetto di un processo di internazionalizzazione che porta inevitabilmente ad un'ulteriore evoluzione dei suoi protocolli.
In occasione di Protocolli Veneziani I è stato realizzato un catalogo con testi di Muntadas e Angela Vettese, edito da Silvana Editoriale.

Antoni Muntadas ha partecipato a diverse esposizioni internazionali tra le quali Documenta VI e X a Kassel, le Biennali di Venezia '72, '76 e 2005, San Paolo e Lione, oltre ad aver esposto in numerosi musei internazionali e ad aver diretto seminari in istituzioni accademiche Europee e Statunitensi. Il suo lavoro gli è valso numerosi premi, tra cui nel 2009 il premio Velazquez de Artes Plasticas.

Immagine: Muntadas, G#1 della serie Protocolli Veneziani I. Fotografia su plexiglass siliconato e dibond. 2013, 100 x 149,8 cm 

lunedì 27 maggio 2013

QIU ZHIJIE: L'UNICORNO E IL DRAGONE - FONDAZIONE QUERINI STAMPALIA, VENEZIA


QIU ZHIJIE
L'UNICORNO E IL DRAGONE
a cura di Chiara Bertola, Davide Quadrio
Fondazione Querini Stampalia
Campo Santa Maria Formosa, Castello 5252 - Venezia
dal 28/5/2013 al 18/82013

Una cartografia delle collezioni della Fondazione Querini Stampalia di Venezia e del Museo Aurora di Shanghai

L’artista cinese Qiu Zhijie, curatore dell’ultima Biennale di Shanghai, presenterà alla Fondazione Querini Stampalia una selezione di opere inedite in occasione della sua prima mostra personale in Italia durante la 55. edizione della Biennale d’Arte di Venezia. Attraverso un’articolata ed eterogenea scelta di lavori, l’artista esplorerà le dinamiche complesse che tracciano gli itinerari spaziali e temporali tra Occidente ed Oriente, tra passato e presente. Considerato nel panorama artistico cinese come un vero e proprio intellettuale - nel senso rinascimentale della parola - Qiu Zhijie è un pensatore, un attivista, un poeta, un cartografo e persino un archivista del sapere. Nessuno meglio di lui potrebbe esplorare queste storie intricate che si estendono parallelamente nel tempo e nello spazio. Come artista Qiu Zhijie definisce il suo modo di operare come “arte totale”, sostanzialmente una presa di coscienza che la creazione artistica non può essere sradicata e sottratta alla situazione storica e culturale che la circonda e che l’ha innestata. La mostra di Qiu Zhijie è la prima tappa di New Roads, un progetto triennale di collaborazione internazionale tra Cina e Italia nato dalla volontà di creare una piattaforma di dialogo multiculturale attraverso l’arte contemporanea.

Tre sono le istituzioni coinvolte: Fondazione Querini Stampalia di Venezia e il Museo Aurora di Shanghai che, attraverso il fondamentale intervento di mediazione interculturale e artistica di Arthub Asia, mettono a confronto la loro storia e le loro collezioni, analizzandole e espandendole attraverso progetti commissionati a artisti contemporanei occidentali e orientali.
Le opere site specific di Qiu Zhijie, così come tutti i precedenti progetti di arte contemporanea del programma Conservare il Futuro, sviluppati dal 2000 alla Fondazione Querini Stampalia, sono state pensate in relazione agli oggetti della collezione permanente. In questo caso, il confronto e l’analisi si estenderanno oltre, costruendo dei ponti concettuali e stilistici tra le opere della Fondazione veneziana e la preziosa collezione asiatica d’arte antica del Museo Aurora di Shanghai.

Eludendo la distanza geografica e smascherando quei pregiudizi secolari accumulati nel corso degli scambi culturali tra Oriente e Occidente, l’approccio cartografico di Qiu Zhijie traccia, scopre ed evidenzia le connessioni tra i due musei ma anche tra Shanghai e Venezia, due città accomunate da molteplici aspetti tra cui la loro innata indole all’apertura e allo scambio, tipica dei luoghi che si affacciano sul mare. Guardando le mappe di Qiu Zhijie, viene subito in mente l’organicità e la Fluidità della mappa di Venezia, sinuosa e densa. Qiu Zhijie le costruisce individuando un sistema di cellule tipologiche e simboliche che si aggregano l’una all’altra come nel tessuto urbano della Serenissima, dando vita a straordinarie e organiche cartografie che come grandi arazzi capovolti raccontano dei molti nodi e fili che le tengono insieme.

Il titolo della mostra L’Unicorno e il Dragone. Una cartografia delle collezioni della Fondazione Querini Stampalia e del Museo Aurora, trova ispirazione nella conferenza di Umberto Eco - “Cercavano gli unicorni” - tenuta all’Università di Pechino nel 1993. Lo studioso, in un’analisi dei meccanismi che scaturiscono dal confronto e dalla scoperta di culture diverse, puntualizza una certa tendenza, protratta attraverso i secoli, a classificare simboli, nozioni e concetti estranei, adattandoli ai propri sistemi di referenze culturali. L’esempio più clamoroso citato da Eco è proprio quello secondo il quale Marco Polo, vedendo un rinoceronte durante i suoi viaggi in Oriente, lo identificò subito come un unicorno, seguendo l’unica possibile classificazione che la tradizione occidentale gli aveva messo a disposizione per definire una creatura con un corno.

La serie inedita di mappe di Qiu Zhijie, alcune impresse su carta con una tecnica secolare cinese di tamponamento con spugne (rubbing), altre disegnate ad inchiostro direttamente sulle pareti, illustrerà proprio questi bizzarri equivoci nati dai rapporti di scambio culturale tra Italia e Cina e, in senso allargato, tra Occidente e Oriente. Attraverso molteplici referenze storiche, filosofiche e figurative, l’artista non solo ci guiderà nella storia ed evoluzione di queste mistificazioni, ma ci aiuterà a scoprire come tali interpretazioni fuorvianti possano rivelarsi basilari nella scoperta di nuove e inaspettate analogie transculturali.
È infatti molto facile identificare l’errore palese di Marco Polo, ma quello che Qiu Zhijie ci sa rivelare è che in realtà, anche nella tradizione cinese è sempre stato presente un unicorno, che non è né un cavallo con un corno in fronte, né un rinoceronte. L’unicorno cinese è infatti una figura mitologica chiamata Qilin o Tianlu, e in alcune raffigurazioni appartenenti alla collezione Aurora, sorprendentemente simile al leone alato di San Marco.

L’opera dell’artista si vuole focalizzare quindi anche sul processo di trasformazione di quelle immagini che, pur strutturate già da antichi innesti di forme, vengono “contaminate” e trasformate dall’interazione e comunicazione tra culture.
Queste commistioni di significati mistici e forme verranno rappresentati da Qiu Zhijie anche attraverso una serie di sculture in vetro di animali mitologici che racchiudono immagini provenienti da due depositi di memoria: le collezioni del Museo veneziano e del Museo Aurora di Shanghai. 

THERE'S NO PLACE LIKE HOME - WESTPHAELISCHER KUNSTVEREIN, MUNSTER


THERE'S NO PLACE LIKE HOME
curator: Kristina Scepanski
Westphälischer Kunstverein
Rothenburg 30 - Munster
20 April - 23 June 2013

Artists: Eric Baudelaire, Nanna Debois Buhl, Jean-Pascal Flavien, Theresa Himmer, Maria Loboda, Benjamin Tiven, Jeronimo Voss, Christoph Westermeier

“Building Dwelling Thinking” – Martin Heidegger chose this list of activities as the title for a lecture held at the Darmstadt Symposium in 1951, and it would seem that the lack of punctuation was quite deliberate. It simultaneously conveys both a consecutive sequence and reciprocal concurrency. The three activities are more closely linked than merely in terms of the implicit chronology, in which one must necessarily happen before the other. Instead, the concepts seem to depend upon one another. The core of Heidegger’s presentation was the separation of dwelling from the pure sense of having accommodation. He emphasised the existential dimension of dwelling as a basic facet of human existence. As a consequence, building itself is more than just architectural construction: we create things and places that structure and accommodate our actions and behaviour. Concomitantly, they develop relationships, both among themselves and to the environment, opening up spaces for living and being in the world.
The construction of a new residential space in a Heideggerian sense is one of the aims of “There’s no place like home” – the Westfälischer Kunstverein’s first exhibition in its new venue on Rothenburg. After a somewhat itinerant programme based at various venues across the city over the past four years, the Kunstverein now faces the challenge and unique opportunity of appropriating a new site and duly cultivating it as a space for living and thinking according to its own designs. Understandably, this process of moving in takes time, and so the Kunstverein and the artworks themselves gradually took phased possession of the new space. The newly installed works were presented on three nights before the opening as part of a series of artist talks. In this way, the exhibition has gradually expanded and provokes a different perception of space on a daily basis.
The relationship between people and space, theorised not only by Heidegger, accrues great importance because it has always shaped the self-awareness and understanding of individual identity. One of the many different relationships between people and space is that which we commonly call ‘home’. The concept of home can no more be reduced to geographical or physical environments than can Heidegger’s idea of a space for dwelling. Home refers to something with which the individual can identify – indeed, even abstractions can represent a spiritual home.
With its title “There’s no place like home”, the exhibition deliberately departs from that inherently German concept of Heimat. The intention here is precisely not to create a sentimental assessment of a given place or situation, but conversely, to reveal the diversity in the idea of a sense of belonging to a place. Eight international artists launch a critical appraisal of the concept home, questioning its appropriateness for the time and furthermore, to speculate upon the different types of relationships between people and places. In so doing, the title flirts stylistically with this feeling of home which is mostly defined in terms of nationality or region, while at the same time literally denying this very fixedness: There is NO place like home.
The individual works in the exhibition address different aspects, consequences and potentials that arise from the nexus of ideas surrounding home, Heimat and belonging. Theresa Himmer examines her individual childhood memories of a place, which, due to specific political circumstances and when compared to her contemporaries, has etched itself into her identity in quite different ways. It becomes apparent that meaning is only assigned to places by individuals. Nanna Debois Buhl’s slide installation describes the reverse influence of a locality or an urban structure on an individual’s emotions. Jean-Pascal Flavien examines how a very specific architectural home can influence our actions and thinking, with the suggestion that we might perceive dwelling as a creative activity. By means of her work’s vivid illustration of the process of appropriating a specific site via personal belongings, Maria Loboda’s inherently moveable work continues the approach of the changing perception of space contained in the prologue to the exhibition. Christoph Westermeier has developed a work specifically for the Kunstverein that investigates the Association’s geographical, historical and cultural roots on the basis of its art collection. Benjamin Tiven’s project for the Kunstverein’s website also processes the Association’s local and temporal position via a system for the design of cultural monuments. Jeronimo Voss’ installation and Eric Baudelaire’s film postulate the notion that homelessness and abandonment of home do not necessarily have to be categorised as negative experiences, but can instead generate productive potential.
By investigating a much more individual type of situatedness in the world that transcends notions of home and homeland, the artistic positions in “There’s no place like home” effectively question the productivity of concepts that fix us to a specific location.
However, the secret protagonist of this exhibition is none other than the Kunstverein itself. Besides the appropriation and cultivation of new thinking and dwelling space described at the outset – which the first exhibition in the new building intends to achieve – “There’s no place like home” should also be understood as a diagnosis of Westfälischer Kunstverein’s duties, responsibilities and self-understanding. In what way does the Kunstverein relate to its origins? To what extent is its identity shaped by its immediate environment, and how can and should it be effective as a site? “There’s no place like home” also implicitly provides a kind of assessment of the Institution ‘Kunstverein’s’ overall position, which, however, should not be viewed literally, i.e. nationally or geographically any more than the concepts of Heimat or home. The order of the day must now be to maintain the productivity stemming from its previous, quite literal homelessness despite its new, fixed location.

Image: Theresa Himmer, Parallel Memories, 2013